6 Settembre 2000
Mentre il 6 di settembre si apre al palazzo delle Nazioni Unite di New York il cosiddetto summit del millennio, cui è prevista la partecipazione di 150 capi di stato, l’ONU sta cercando di rifocalizzare la sua missione e di ravvivare la sua credibilità. (Lasciamo perdere il denaro necessario per mettere in piedi la più costosa mostra fotografica mai vista o la mancanza di chiare e concordate priorità. Lasciamo perdere le divisioni interne all’organizzazione e la continua mancanza di un adeguato supporto finanziario esterno – ad esempio gli Stati Uniti devono ancora pagare le loro quote! E neanche parliamo della sconcezza rappresentata dall’orrendo condominio di 90 lussuosi piani che l’impresario Donald Trump sta velocemente costruendo al di là della strada, edificio che oscurerà il palazzo stesso dell’ONU. In questa città vediamo ogni giorno le speculazioni immobiliari vincere sul buonsenso.)
L’ONU ha un disperato bisogno di pubblicità favorevole. Invitando così tanti alti papaveri, Kofi & Compagni possono almeno contare su tutti i giornalisti al loro seguito – i cosiddetti ragazzi sull’aeroplano – per avere una copertura di stampa in tutto il mondo. Sfortunatamente sembra che l’ONU goda di una regolare copertura di stampa più in Nigeria che a New York, dove ben raramente le sue diverse iniziative ricevono una qualche attenzione, a meno che non si tratti di uno scandalo o che gli Stati Uniti non stiano radunando le nazioni del mondo in vista di una qualche avventura militare.
Il maggior spettacolo di contorno della settimana è la visita dei due maggiori leader cinesi, il presidente Jiang Zemin e Li Peng, ora alla testa dell’Assemblea Nazionale del Popolo Cinese, ma meglio ricordato come il “macellaio di Pechino” per aver inviato i carri armati in piazza Tienanmen nel 1989. Li ha lasciato New York venerdì scorso con un diavolo per capello dopo che gli erano stati consegnati i documenti delle cause legali aperte contro di lui da parte dei sopravvissuti alla protesta di piazza Tienanmn, cosa questa permessa dalle leggi americane contro i colpevoli di violazioni dei diritti umani.
Prima della sua visita, la Cina, consigliata dalle agenzie americane di pubbliche relazioni, ha predisposto una campagna pubblicitaria multimilionaria. Un’intervista esclusiva è stata offerta alla trasmissione “60 minuti”, la quale, prima l’ha fortemente pubblicizzata, poi l’ha mandata in onda come se fosse qualcosa di unico. Il fatto che la Cina stessa avesse richiesto la trasmissione e il fatto che il precedente corrispondente da Pechino della CNN Andrea Koppel (figlia di Ted) avesse non molto tempo fa condotto un’intervista similare per approfondire la personalità del leader cinese, intervista fatta di mezz’ora di domande e risposte, tutto questo è stato minimizzato. La CBS ha promosso la sua “esclusiva” in questo modo: “La discussione tra Wallace e Jiang assume toni ora un po’ tesi, ora leggeri e arguti. Wallace pone tutte le domande difficili.” Da parte sua Jiang ha chiarito che l’intervista era da intendersi come un mezzo propagandistico per “ottenere la comprensione” del pubblico americano. Ha ridacchiato, ha cantato una canzone e ha ripetuto degli aforismi, ma non è stato mai sottoposto a quel genere di duro esame incrociato per il quale Wallace è famoso. La CBS ha usato Jiang come una celebrità per mettere a segno un colpo mediatico , Jiang ha usato la CBS per metter a segno un colpo politico.
Le mie sopracciglia si sollevano quando gli organi di informazione si danno una pacca di congratulazione sulle spalle per aver posto delle “domande difficili”. Difficili per chi – Mike o Jiang? Mi sono forse perso qualcosa? Non è il porre domande difficili proprio il mestiere dei giornalisti? Tempi addietro i notiziari si sarebbero vantati di conversazioni “leggere ed argute” con un brutale dittatore? E’ vero, Wallace ha posto delle domande serie e ha cercato di dar loro un seguito con una quantità di teatrali puntualizzazioni e stereotipi sulla democrazia, ma se fosse stato un incontro di pugilato, l’avrei giudicato un KO tecnico a favore di Jiang. La CBS ha posto il problema della violazione dei diritti umani nei confronti dei praticanti di Falun Gong (quasi alla fine della seconda parte di questa insolita conversazione a due), ma probabilmente non sapeva che alcuni di quelli che il documento filmato indicava come esercizi di Falun Gong erano in realtà, secondo il portavoce di Falun Gong, esercizi tipici di un altro gruppo.
Il bel colpo televisivo di Jiang è stato solo l’inizio. I cinesi hanno ingaggiato una costosa agenzia di pubbliche relazioni, meglio nota per aver organizzato per conto di Robert Murdoch una grossa campagna pubblicitaria a favore della Cina sull’apertura al centro Javits di New York di una mostra culturale del valore di almeno 7 milioni di dollari, mostra che ben presto viaggerà per tutti gli Stati Uniti. (Dagli articoli di stampa: “La mostra offrirà una prospettiva mai vista prima sulla bellezza e sulla diversità della Cina. Viene liberamente presentata alla gente di New York come un dono da parte della Repubblica Popolare Cinese.”) Questo gesto fa parte della campagna per migliorare l’immagine della Cina prima che il senato americano prenda in considerazione questo autunno la legislazione riguardante i PNTR ( n.d.t.: normali rapporti commerciali permanenti) con la Cina. L’approvazione dei PNTR permetterebbe alla Cina di evitare un controllo annuale sullo stato dei diritti umani nel suo territorio. La proposta di legge, che ha molto più a che fare con l’accelerazione degli investimenti americani in Cina che con lo sviluppo dei commerci bilaterali, è stata approvata la scorsa primavera dalla camera dei deputati dopo un astioso dibattito. (Sarà politicamente interessante vedere come tutto questo influenzerà la campagna elettorale di Gore. Al Gore è favorevole alla proposta di legge, mentre non lo è la maggior parte dei suoi sostenitori.) Durante la sua visita Jiang incontrerà anche il presidente Clinton e gli uomini d’affari statunitensi.
Giornalismo leccapiedi
Per quanto riguarda la costosissima mostra della Cina (leggi: show propagandistico), ho appreso con grande stupore che gli sponsor onorari sono due magnati americani dell’informazione: Gerald Levine di Time Warner e Sumner Redstone di Viacom. Tutti e due fanno affari in Cina e tutti e due hanno già avuto modo di leccare i piedi al governo cinese. Il 28 settembre 1999, nel bel mezzo della feroce repressione in Cina contro il movimento spirituale di Falun Gong, Sumner Redstone, che era sul punto di fondere la sua Viacom con la CBS, si trovava a Shanghai per una conferenza stampa promossa dal settimanale “Fortune” di proprietà di Time Warner e supportata dal presidente Jiang.
Per la delizia del governo di Pechino, Redstone invitava la stampa americana ad essere più prudente quando si trattava della Cina: “Mentre il loro campo d’azione si allarga sempre di più, le grandi reti di informazione devono essere consapevoli delle politiche e delle opinioni dei governi dove noi operiamo…L’integrità dei giornalisti deve prevalere nell’analisi finale. Ma ciò non significa che essa debba essere esercitata in un modo gratuitamente offensivo per i paesi nei quali operate.” E va bene, Summer, teniamo pure un tono leggero e arguto!
Che tipo di segnale pensate tutto questo mandi? Si può parlare di ammorbidimento unilaterale. Alla stessa conferenza i cinesi hanno ritirato dalla circolazione un servizio speciale sulla Cina pubblicato dal settimanale “Time” (edito da Time Warner del sig. Levin). Come è stato spiegato in un articolo di stampa, quella edizione di “Time”, la cui copertina riportava il titolone ”Lo stupefacente mezzo secolo della Cina”, si era scontrata con la censura cinese per aver incluso degli articoli dei dissidenti esiliati Wei Jingsheng,Wang Dan e del Dalai Lama tibetano. Evidentemente Time Warner non si è arrabbiata abbastanza da ritirare il suo appoggio alla mostra newyorkese del governo cinese.
I diritti umani non sono in cima alle agende delle grandi reti di informazioni più di quanto non lo siano a quella delle Nazioni Unite. Su richiesta di Pechino, l’ONU ha anche escluso il Dalai Lama da un incontro di leader religiosi mondiali. Una delegazione “ufficiale” cinese ha avuto il permesso di prendervi parte e si è prontamente uniformata alla linea del governo denunciando ancora una volta Falun Gong come un “culto diabolico”.
Sfortunatamente questa stessa posizione è stata pedissequamente ripresa senza commenti anche in molti servizi d’informazione americani. Verso la fine di agosto il Wall Street Journal, il Los Angeles Times e il The Washington Post hanno tutti pubblicato importanti articoli sui continui abusi di cui sono vittime in Cina i comuni praticanti, ma tali articoli sono così rari che il pubblico ha ancora adesso un’idea molto vaga dell’ammontare delle violazioni dei diritti umani in Cina: in poco più di un anno, 24 praticanti di Falun Gong sono morti misteriosamente, 50.000 sono stati arrestati, si diffonde la pratica della tortura e la gente viene mandata nei campi di lavoro e nei manicomi senza processo. Questa è la ragione per la quale ho scritto il libro “La sfida di Falun Gong alla Cina” (editore Akashic Books), nel quale si possono leggere le testimonianze di persone che altrimenti non avrebbero mai avuto la possibilità di essere ascoltate. Parlo anche della pietosa qualità della maggior parte dei resoconti sull’argomento da parte delle reti d’informazione, le quali preferiscono evidentemente fare affari con la Cina che porre “domande difficili” o mettere in evidenza le violazioni dei diritti umani.
Altre voci
Il punto di vista di Falun Gong (interviste vere e complete, non solo qualche estratto) è stato per lo più ignorato dai servizi giornalistici, non solo perché i praticanti cinesi sono stati imbavagliati dal governo, ma anche per ragioni istituzionali che hanno a che fare con il modo in cui è strutturata la copertura delle notizie d’oltremare. Poche agenzie d’informazioni richiedono commenti negli Stati Uniti su storie cinesi. E così, se le fonti sono fatte tacere già in Cina, ben raramente le si potranno udire altrove, dato che quello che i sostenitori dei diritti civili o i praticanti di Falun Gong oltremare dicono, non viene di solito considerato parte del compito di un corrispondente dalla Cina. E questo nonostante i praticanti di Falun Gong siano accessibili su Internet.
Un altro problema ha a che fare con la lingua e con il modo con il quale le notizie sono date. Nel caso di Falun Gong molti mezzi di informazione, forse inconsciamente, si sono serviti dello stesso linguaggio usato dai media governativi cinesi che definiscono Falun Gong un culto o una setta e qualche volta usano entrambi i due termini nello stesso servizio. Un corrispondente della agenzia Reuters non sapeva come definire Falun Gong ed ha così usato il termine “mishmash” (n.d.t.: guazzabuglio). (Un praticante cinese mi ha chiesto cosa significava questa parola). In Inghilterra, dopo che era stata inoltrata una protesta sull’uso improprio del termine “culto”, un editore mi ha detto con un sorrisetto: “ Bene, di nostra volontà abbiamo smesso di usarlo. Abbiamo quindi cominciato a definirli una setta.”
Ken Roth, direttore di Human Rights Watch, mi ha detto che anche la stampa americana non sa proprio come definire Falun Gong: “Non è una religione. In realtà non è neanche solo un gruppo che pratica degli esercizi. E’ una sorta di combinazione mistica di cose diverse che non si riesce ad etichettare facilmente. E così, forse per pigrizia, molti giornalisti occidentali hanno semplicemente cominciato ad usare la definizione del governo cinese, che è quella di culto. E’ un altro esempio della Grande Bugia: se continui a ripetere una menzogna, dopo un po’ verrà presa per verità. E questo è quello che sta succedendo.”
Non è facile riferire sui diritti umani in Cina e la situazione diventa ancor più complicata quando le agenzie informative occidentali mettono i loro interessi al di sopra delle loro responsabilità giornalistiche. I lettori di MediaChannel ricorderanno il resoconto informativo di Beatrice Turpin, già direttore di produzione di APTN (Associated Press Televisio News), che è convinta che il suo impegno nella copertura degli avvenimenti riguardanti Falun Gong abbia portato al suo licenziamento e alla sua conseguente espulsione dalla Cina.
Da quando la repressione ha avuto inizio, il governo cinese ha anche accentuato il suo già stretto controllo sui media. L’ Amministrazione della Stampa e dei Periodici ha annunciato ai primi di gennaio che 27 tra quotidiani e periodici erano stati puniti per aver violato le leggi sulla stampa. Il Centro di Informazione dei Diritti Umani e del Movimento Democratico in Cina ha rivelato nel dicembre del 1999 che 200 quotidiani locali, circa il 10% dei quotidiani di tutto il paese, sarebbero stati chiusi nell’anno 2000 per permettere al governo centrale di ristabilire il proprio controllo sopra una stampa che potrebbe deviare dalla linea del partito.
Sempre di più il conflitto con Falun Gong è diventato una tragedia della comunicazione: i leader cinesi non sono in grado di ascoltare gli appelli dei loro stessi cittadini, mentre i mezzi di informazione mondiali non ascoltano, o non si impegnano a sufficienza nel far conoscere le grida di dolore di questa significativa nuova forza spirituale. Dopo aver esaminato da vicino la copertura di stampa di cui ha “goduto” Falun Gong, ci si rende facilmente conto che i media americani e quelli cinesi non sono poi così diversi da come appaiono ad uno sguardo superficiale. Troppo spesso il mondo dell’informazione ed il mondo di quelli che fanno informazione sono lontanissimi.
Mentre i leader di tutto il mondo confluiscono a New York e mentre i dimostranti tibetani e di Falun Gong sfidano il governo cinese parlano apertamente di altre questioni, prestate attenzione a quali voci viene dato spazio – e se agenzie informative già compromesse danno loro l’attenzione che meritano.
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