Cristiani, musulmani, membri del Falun Gong, prostitute, drogati subiscono fino a 4 anni di lavori forzati senza alcuna accusa o processo. Torture, pestaggi, umiliazioni, rischi per la salute sono all’ordine del giorno. Pechino al vaglio dell’Onu il 9 e l’11 febbraio a Ginevra.
Nelle 64 pagine del documento si mostra che ogni anno centinaia di migliaia di cinesi vengono segregati in lager ai lavori forzati, senza alcuna accusa, processo o appello, dando alla Cina il primato mondiale di detenzioni arbitrarie. Il sistema è quello della “rieducazione attraverso il lavoro (laodong jiaoyang)”, grazie al quale la polizia può comminare a un individuo fino a 4 anni di reclusione per cosiddetti “reati minori”. Fra essi si elenca il far uso di droga, prostituzione, ma anche presentare petizioni, difendere i diritti umani, essere membri di comunità religiose illegali, quali comunità cristiane sotterranee, musulmane, del Falun Gong.
La “rieducazione attraverso il lavoro” è parallela al sistema del “laogai”, la riforma attraverso il lavoro. La sola differenza è che al laogai si è condannati con una sentenza. La “rieducazione” è invece un fatto “amministrativo”, gestito in proprio dalle forze di polizia.
La situazione all’interno dei laogai e dei laojiao è simile in tutti gli aspetti. Dalle testimonianza raccolte dal Chrd emerge un quadro delle sofferenze quotidiane dei detenuti: torture; pestaggi da parte di poliziotti o di kapò (altri detenuti istruiti dalle guardie); fino a 20 ore di lavoro al giorno; miseri salari sottratti; condizioni di lavoro pericolose, per l’uso di sostanze tossiche; cibo scarso; igiene inesistente; controllo medico solo in casi di emergenza; divieto di ricevere visite di familiari.
Fra le testimonianza citate vi è quella di Li Guirong, una donna di 51 anni, che ha scontato 2 anni di lavori forzati a Jilin per aver presentato delle petizioni a Pechino. Li racconta di essere stata sottoposta per giorni alla tortura: denudata, veniva appesa a testa in giù con delle catene; le infilavano un tubo di gomma rigido fino allo stomaco; le piazzavano alle gambe 30 aghi legati a fili elettrici: “quando la corrente passava ed entrava fino al cuore, il dolore era peggio che morire…”
Zhang Cuiping, che ha passato 2 anni e mezzo in un lager di Shanghai, racconta che “per raggiungere la quota di produzione, dovevamo lavorare così duro che le nostre dita si gonfiavano e presentavano piccoli tagli. Alcuni detenuti avevano le mani coperte di sangue, altri così feriti che non riuscivano a dormire di notte. Ogni settimana potevamo dormire solo un giorno e anche allora dovevamo comunque pulire l’officina”.
Il Chrd fa notare l’ironia per cui la Cina ha da poco celebrato i 30 anni di riforme economiche e i suoi capi hanno elogiato gli “eccezionali progressi nel miglioramento del sistema legale”. In realtà, il sistema del laojiao è una violazione dei diritti umani e della stessa costituzione cinese.
Negli ultimi 20 anni molti intellettuali dei think-tanks governativi hanno chiesto una revisione della rieducazione attraverso il lavoro. Anche nella società civile cresce la pressione per abolirla. Nel parlamento cinese qualche deputato ha anche tentato di proporne l’abolizione, ma senza risultato.
Il governo cinese non diffonde alcun dato sulla popolazione carceraria o detenuta nei campi di lavoro. Anche l’Onu o le organizzazioni non governative non posseggono spesso statistiche aggiornate. La Laogai Foundation, che pubblica ogni anno statistiche attendibili, afferma che nel giugno 2008 vi erano 319 campi per il laojiao, con una popolazione di reclusi dai 500 mila ai 2 milioni. Di questi, circa il 10% è composto da prigionieri politici.
Fonte: http://www.asianews.it/index.php?l=it&art=14407
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