Sei anni fa era stato sotto i riflettori dell’economia internazionale perché protagonista - primo piccolo imprenditore italiano - di una joint venture in Cina. Oggi le luci si riaccendono su di lui come primo italiano cacciato dalla Cina per conflitti ideologici. Alfredo Fava Minor, l’imprenditore biellese fondatore della Shanghai Famas, azienda «figlia» della casa-madre di Trivero, specializzata nella produzione di tessuti tecnici, l’ultima volta in Cina ci è rimasto solo un’ora e mezzo, un tempo breve ma interminabile passato in un ufficio dell’aeroporto di Shanghai, con due poliziotti, prima di essere caricato su un aereo che lo ha riportato in patria: è sulla lista nera, gli è stato detto, e non potrà più tornare nella sua azienda né nella casa ove, fino a pochi mesi fa, viveva con la moglie cinese e con il figlio di due anni, che ora sono in Italia. Quanto all’azienda, che aveva fondato sei anni fa, piccolo gioiello frutto di una joint venture anomala fra la municipalità cinese e una piccola impresa privata italiana, sarà costretto a vendere il suo 51%, non potendo più seguire la produzione. «Lo avevo messo nel conto e mi aspettavo che prima o poi succedesse - commenta Fava Minor - dopo che erano iniziate le persecuzioni contro i praticanti del Falun Gong».
Sì, perché Alfredo Fava in Cina, oltre a fondare un’azienda e a farsi una famiglia, ha scoperto ed è rimasto affascinato da quella che per gli occidentali è una filosofia, un movimento di pensiero ispirato alla riscoperta della tradizione buddista e alle radici della cultura orientale, ma che per il governo cinese rappresenta un pericolo da combattere e un nemico da estirpare. Anche a costo di bloccare all’aeroporto e di rispedire in Italia un uomo che in Cina ha contribuito a creare lavoro e benessere.
All’aeroporto, con il nuovo visto valido per un anno, il permesso di residenza e di lavoro in tasca, Alfredo Fava Minor si sentiva tranquillo: lasciati a Biella la moglie, il figlio e i suoceri perché non corressero rischi, andava in azienda e si sarebbe trattenuto per qualche settimana.
Durante le operazioni doganali, però, due poliziotti lo hanno affiancato e condotto in un ufficio. E’ questa la scena che ha intravisto per un attimo l’autista che lo attendeva per portarlo in azienda e che l’ha riferita alla moglie di Alfredo, Ning, quando questa ha telefonato dall’Italia per parlare con il marito. Nessun’altra notizia e il dubbio che Alfredo fosse stato arrestato, fino a quando un chiarimento non è arrivato dal Consolato italiano, cui Fava Minor era riuscito a telefonare in extremis dalla scaletta dell’aereo sul quale era stato caricato. Nessuna risposta alle sue domande. Nessun permesso di chiamare casa, l’azienda o il Consolato. Solo un’affermazione secca: «Lei è sulla lista nera», prima di rispedirlo in Italia.
«Mi è andata bene - commenta Fava Minor - perché avrebbero potuto arrestarmi come succede ai cinesi praticanti del Falun Gong. Tutto questo è inammissibile: sono un cittadino italiano, non ho fatto nulla di male e in Cina ho un’impresa. E’ pazzesco che, in un paese che dichiara di aprirsi all’Occidente e che sta per entrare nella Wto, esistano ancora queste persecuzioni ideologiche».
Che cosa succederà ora alla Shanghai Famas e ai suoi 35 dipendenti? «Sto già lavorando - dice - a una soluzione che prevede la cessione di maggioranza e gestione al mio partner tedesco, che si è subito messo a disposizione per continuare la mia opera e mantenere in vita l’azienda».
E’ la fine di un piccolo-grande sogno (la Shanghai Famas è un gioiellino unico nel suo genere, che Alfredo sognava di far crescere nei Paesi del Far East, forte dei bassi costi di produzione) ed è anche la prima volta che provvedimenti restrittivi vengono presi dal governo cinese nei confronti di un cittadino italiano. La Cina, forse, è più vicina di quanto pensassimo, ma in questo caso ci è vicina in un modo inquietante.
E pensare che solo qualche settimana fa Alfredo Fava si sentiva tranquillo: «Non lo sento come un problema mio - diceva -, piuttosto è un problema del governo cinese. Sono andato in Cina come imprenditore e dietro all’imprenditore c’è l’uomo. Quando sono arrivato, nessuno mi ha chiesto quale fosse il mio credo. Ho conosciuto il Falun Gong nel ’95, quando i suoi libri erano pubblicati dallo Stato. Nulla è cambiato e non vedo per quale motivo dovrei cambiare. Continuo a fare il mio lavoro di imprenditore. Qualche rischio c’è, ma non posso comportarmi come nulla fosse di fronte a una persecuzione».
Nessun problema, dunque, fino a pochi giorni fa: «La polizia è venuta in azienda e ha interrogato i miei dipendenti, non me». L’imprenditore biellese però non si arrende: se l’azienda è persa e se in Cina non potrà ritornare, vuole almeno che tutto questo si sappia. «Farò il possibile - commenta - perché le autorità italiane si muovano e perché il mondo civile intervenga per impedire che si uccida la libertà di pensiero in questo modo». E si prepara a spedire una lettera aperta a una lunga serie di indirizzi, dall’Ambasciata italiana in Cina, alla Presidenza del Consiglio, al ministero del Commercio estero, alla stessa Confindustria.
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