Zhang Lianying, 52 anni, è stata per tre volte nei campi per la rieducazione attraverso il lavoro a causa della sua fede religiosa. All’ingresso del famigerato campo di Masanjia (nella foto di Du Bin, che su Masanjia ha girato uno sconvolgente documentario), una guardia l’ha accolta prendendola a pugni e schiaffi; poi le hanno aperto la bocca a forza colpendo il palato e i denti con un mestolo di metallo; infine, l’hanno presa per i capelli facendole sbattere la testa contro un tavolo e un muro.
Dopo questa “accoglienza”, è stata sottoposta regolarmente, anche 20 volte al giorno, alla tortura della cremagliera: sdraiata su un telaio di legno, braccia e gambe legate a dei tiranti che venivano fatti girare provocando dolore intenso; a volte la denudavano e fino alla fine del “trattamento” non poteva andare in bagno né bere o mangiare.
Dai campi della rieducazione attraverso il lavoro della Cina sono arrivate tante tremende testimonianze come quella di Zhang Lianying: pestaggi, scariche elettriche, annegamento simulato (il “waterboarding” di cui molto si parla a proposito degli interrogatori di sospetti terroristi da parte della Cia), iniezioni di sostanze sconosciute, minacce nei confronti dei familiari, diniego del cibo e delle visite dei parenti…
Dal 15 novembre tutto questo dovrebbe essere un lontano ricordo. Risale a quel giorno di un mese fa la decisione delle autorità cinesi di abolire i campi per la rieducazione attraverso il lavoro, che per decenni era stato usato per trattenere arbitrariamente centinaia di migliaia di persone senza accusa né processo. Un passo sollecitato e lungamente atteso dalle organizzazioni per i diritti umani.
Tutto bene, allora?
Non proprio. Dopo le denunce degli avvocati cinesi per i diritti umani oggi Amnesty International ha dichiarato che, mentre i campi della rieducazione attraverso il lavoro chiudono, aumenta l’uso delle cosiddette “prigioni nere”, dei centri per la riabilitazione obbligatoria dei tossicodipendenti e dei “centri per il lavaggio del cervello”. In queste strutture detentive, la tortura è dilagante.
Spesso, i vecchi campi per la rieducazione attraverso il lavoro vengono ristrutturati o viene loro semplicemente cambiato nome. Alcuni hanno riaperto o sono stati meramente chiamati centri per la riabilitazione dei tossicodipendenti: la maggior parte di questi offre ben poco trattamento e opera in modo praticamente identico ai campi per la rieducazione attraverso il lavoro.
Le autorità hanno inoltre incrementato l’uso dei “centri per il lavaggio del cervello”, talvolta denominati ufficialmente “classi per l’educazione legale”, destinati prevalentemente ai praticanti del Falun Gong con l’obiettivo che, attraverso i maltrattamenti e la tortura, rinuncino alla loro fede.
Risulta in aumento anche l’uso delle cosiddette “prigioni nere”, strutture detentive non ufficiali, spesso allestite casualmente in alberghi o edifici abbandonati, per imprigionare i promotori delle petizioni di protesta. Queste carceri nella non hanno alcuna base legale e le autorità continuano a negarne l’esistenza, lasciando i detenuti potenzialmente ancora più a rischio di subire violazioni dei diritti umani che nei campi per la rieducazione attraverso il lavoro.
È evidente che la politica di fondo di punire le persone per le loro attività politiche o per la loro fede religiosa non è mutata. Gli abusi e le torture continuano, nei confronti delle stesse “minacciose” categorie di persone, solo in modo diverso. Fino a quanto quella politica resterà in vigore, le autorità cinesi si limiteranno a trovare una forma al posto di un’altra per punire le idee politiche o le fedi religiose non conformi.
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